Mario Botta

Uno degli ultimi grandi eredi della cultura del moderno e al tempo stesso uno dei grandi autori del primo Post-Moderno: Platform incontra Mario Botta.

Luca Molinari | Per la nostra conversazione e per il numero di Platform ho scelto il termine “classico”, che sembra quasi una provocazione, perché ti si può considerare come uno degli ultimi grandi eredi della cultura del moderno, sicuramente anche per i maestri che hai avuto e insieme uno dei grandi autori del primo Post-Moderno. Ormai oggi ci relazioniamo con il movimento moderno e la sua eredità come un classico da rileggere criticamente.

Mario Botta | Si, mi fa molto piacere.

L.M. | Vogliamo cominciare da questo? Perché poi non tutti, soprattutto i giovani, conoscono benissimo il tuo percorso. Tu hai avuto una grande fortuna da giovane, ti sei laureato con Carlo Scarpa e a Venezia hai lavorato prima sull’ospedale di Le Corbusier e poi sul palazzo dei congressi di Louis Kahn. Puoi raccontare a distanza di così tanti anni che cosa ha rappresentato per te quel momento, da giovane progettista, e cosa lavora ancora dentro di te di quell’esperienza? Cos’è quello che ti porti dietro di Scarpa, di Kahn, di Le Corbusier, oggi, dopo tanti anni?

M.B. | Sono ancora oggi tre grandi maestri che ho avuto il privilegio di incontrare a Venezia, in un clima pre-sessantottino; dico questo per dare il clima politico della situazione. Nel 1965, Giuseppe Mazzariol invita Le Corbusier per il progetto dell’Ospedale. Quindi, la prima cosa a cui penso è quella di scrivere a Mazzariol, che era anche mio professore di storia dell’architettura, per dirgli che non potevo farmi scappare questa occasione, nonostante fossi al primo anno di architettura. Insisto che sarei andato a qualsiasi condizione. La risposta che mi diede fu che potevo pure scordarmelo perché Le Corbusier non accettava studenti. Capiva la mia posizione di studente che arriva dalla Svizzera, ma non era possibile contattarlo. Passati sei mesi ricevo un biglietto nel quale mi chiede di presentarmi alla Fondazione Querini Stampalia perché aveva una comunicazione importante. Frequentavo la Querini Stampalia ogni giorno, perché la biblioteca rimaneva aperta fino a sera inoltrata per gli studenti, in particolare di architettura. Non perdo tempo e vado là il giorno dopo. Mazzariol mi comunica che c’era un’opportunità di lavorare per Le Corbusier, in quanto sarebbero venuti a Venezia Guillermo Jullian de la Fuente e José Oubrerie – due collaboratori del Maestro a Parigi – per allestire un atelier per poter dialogare con i primari dell’ospedale e fare tutte le verifiche necessarie del progetto. Allora, dissi a Mazzariol di propormi come ragazzo di bottega: sarei andato ad aprire le porte, a pulire il pavimento, qualsiasi cosa… Il primo contatto avvenne in questo modo, senza nessuna pretesa; solo con questa testarda voglia di incontrare il Maestro e capire quello che sarebbe stato il suo ultimo progetto e che già a quel tempo mi appariva come profetico.

L’incontro con Louis Kahn avvenne invece nel 1969, quando ancora Giuseppe Mazzariol cercò di promuovere un progetto per il Palazzo dei Congressi a Venezia. In maniera quasi analoga a quella con Le Corbusier, eccomi di nuovo a fare il ragazzo di bottega, questa volta a distanza, per Kahn. Ma, a differenza di Le Corbusier, Kahn venne a Venezia e vi restò un mese intero; durante il quale lavorai a stretto contatto con lui.

In ultimo, ma non da ultimo, voglio ricordare l’importanza di Carlo Scarpa, che mi ha seguito per i cinque anni degli studi sino a essere il mio relatore per la tesi di laurea. Prima che un grande architetto, Scarpa è stato un grande artigiano; lo ritengo uno degli ultimi eredi della cultura rinascimentale. Riusciva a modellare e a far parlare anche i materiali più poveri, e sapeva donare espressività a tutto quello che toccava.

L.M. | Però tra l’altro è sintomatico che tu citi la Querini Stampalia che è stata restaurata dal tuo maestro Carlo Scarpa, e dove tu negli anni sei intervenuto come progettista. Sembra un fantastico ritorno di destini che si incontrano. Io penso che le cose non arrivino mai per caso.

M.B. | Ti dico una curiosità: prima di andare a Venezia avevo già lavorato perché avevo fatto l’apprendista, per tre anni, in uno studio di architettura a Lugano, quindi, avevo dalla mia anche una certa pratica professionale che mi ha aiutato molto agli occhi di Carlo Scarpa. Da un lato gli piaceva l’idea che avessi già costruito; e dall’altro, abitando in Svizzera, mi chiedeva sempre di portargli delle sigarette particolari che si trovavano solo a Chiasso.

L.M. | Quel triennio di cui parli era quello che hai fatto con Tita Carloni? Un autore poco valutato, ma di grandissima qualità.

M.B. | Esattamente. Il suo studio era quello più all’avanguardia di Lugano e gli devo molto per la professionalità, per il clima e per il lavoro che vi si svolgeva. Avevo 15 anni quando ho iniziato il mio apprendistato; non avevo nessuna cultura, ma ho respirato da subito la passione e la ricerca attorno all’origine dell’architettura organica. Carloni ammirava moltissimo Alvar Aalto e Frank Lloyd Wright tanto che alla morte di quest’ultimo, decise di chiudere l’atelier per un giorno di lutto.

L.M. | Immagino che tu questo clima l’abbia portato nel tuo studio in questi anni. Insomma, “il latte buono l’hai bevuto”, ma la cosa che è impressionante devo dire, guardando in questi giorni le monografie sui tuoi primi lavori, anche quella bella monografia di Electa curata da François Chaslin e Pierluigi Nicolin, dove ci sono i tuoi primissimi lavori, è vedere quando tu, a fine anni ’70, neolaureato, come dire, fresco di professione, cominci a produrre una serie di case unifamiliari che oggi sono impressionanti per la novità. Io ricordo le riviste allora, ma riguardandole oggi devo dire che è impressionante perché tu andavi da un’altra parte, rispetto al dibattito in quel momento, in contrapposizione a quello che si produceva in Europa, tu esci infatti, con delle opere totalmente stranianti in cui c’è un senso della forza, della forma e della geometria che è chiaro che parta dalla lezione di Kahn e di Le Corbusier, ma che poi viene completamente rielaborata da te con un senso di novità assoluto. Sono sempre stato molto curioso riguardo alle ragioni di queste tue scelte, perché hai cominciato a produrre queste architetture? Qual era la pressione che avevi da dentro di te?

M.B. | Era il romanico, che è stata la mia prima scuola d’architettura. In particolare, il romanico lombardo che abbonda in Canton Ticino, dove sono cresciuto, e nei territori italiani di confine; penso a Galliano, a Civate al Monte… Sin da giovane ho respirato l’aria del romanico e queste erano le ragioni prime del mio amore per l’architettura. Ho studiato architettura perché conoscevo le chiese romaniche che mi avevano affascinato da ragazzo. Il romanico si identifica con i principi del costruire. Nel romanico si avverte la forza dell’uomo che si contrappone alla natura con un equilibrio straordinario. E poi il rigore, anche geometrico, ma soprattutto nell’uso dei materiali: un unico materiale per costruire una chiesa.

L.M. | È interessante perché è come se tu parlassi di una attualità della storia in cui rimescoli il romanico con le geometrie di Kahn, che a sua volta si nutriva di architettura romana e romanica, il rapporto tra storia e progetti in questo caso genera però forme totalmente nuove.

M.B. | Si, l’esempio del romanico, della sua potenza e della sua seduzione per un giovane architetto m’ha portato – di fatto – a questo mio lavoro: un innamoramento giovanile non ancora contaminato dall’insegnamento. Ancora oggi mi è difficile distinguere l’insegnamento romanico dalle geometrie di Louis Kahn.

L.M. | Anche perché poi tu ti sei mosso lungo una linea di forte autonomia formale; Se io guardo al dibattito di questi ultimi trenta anni, quaranta anni, il tuo lavoro ha una sua forza autonoma rispetto al dibattito in corso che mi ricorda il lavoro di altri autori contemporanei come Ando e Moneo.

M.B. | Per usare un paradosso che mi piace molto, è “la ricchezza dell’ignoranza”. Non si deve saper tutto per fare il nostro lavoro. Bisogna saper scegliere e investire molto su alcune cose affinché la complessità dell’architettura non finisca mai, nonostante sia diventata sempre più virtuale; l’architettura, ormai, è più legata all’idea che non alla fisicità.

L.M. | Trovo che questo sia un tema centrale oggi. Rileggevo un tuo piccolo testo su Louis Kahn che mi era molto piaciuto e dove parli di questa continua usura delle spinte tecnologiche, già nel ‘99, cioè 25 anni fa circa, dicendo che ormai la tecnologia sta consumando la materia, al punto da smaterializzarla. Però alla fine dei conti, per quanto noi ci vogliamo dire che tutto viene smaterializzato, alla fine di questo percorso c’è un edificio in carne e ossa, un vero corpo.

M.B. | Che lavora a gravità.

L.M. | La gravità è l’altro grande elemento, perché l’architettura nasce per contrastare la gravità.

M.B. | Sì, ma la gravità è ancora oggi una costante dell’architettura, che altro non è se non l’organizzazione dello spazio di vita dell’uomo. Ogni costruzione, per sua natura è peso, materia che lavora a gravità. È un dato di fatto dal quale non si scappa, anche le architetture più avveniristiche, alla fine, trovano la loro logica nello scaricare i carichi al suolo. Questa è una convinzione che mi è rimasta negli anni, tanto che anche nel mio ruolo di professore ho sempre cercato di rendere consapevoli i ragazzi chiedendo loro come stanno in piedi le cose, come si scaricano le forze, i carichi, anche le tensioni spaziali. La cultura mediatica contrabbanda il termine “leggerezza” come un termine positivo, generando equivoci che si ripercuotono anche nella pratica artistica.

L.M. | Quello che dici a me piace molto, io ogni volta ai miei studenti cerco di spiegare quanto sia importante l’attacco a terra dell’architettura, cioè come una architettura si appoggia a terra è un progetto in sé e infatti le grandi architetture sempre si appoggiano a terra in maniera interessantissima, o negandola o quasi volando o scaricandola e questo è un tema architettonico bellissimo.

M.B. | Luca, se parli di fascino possiamo pensare anche a Piranesi che, non dimentichiamo, era anche architetto, e alle sue litografie “architettoniche” nelle quali l’idea di gravità al suolo si intreccia con una spazialità fatta di volte, archi e ponti. La sua arte ha ispirato molti altri architetti.

L.M. | Ad esempio?

M.B. | Penso a Louis Kahn, che sull’origine del progetto ha detto delle cose fantastiche, come, ad esempio che “l’inizio contiene già il tutto”. Con questa intuizione intendeva dire che, se la carica – anche ideale – di un’opera da costruire manca dall’inizio, allora si tratta di un falso inizio. Quindi, ci mette in guardia sulla forza statica e la forza intrinseca dicendoci che, se chiediamo al mattone cosa vuole essere, risponde che brama di diventare arco. E si ritorna ancora alla gravità: il lavorare dei mattoni l’uno contro l’altro per diventare un arco. È un insegnamento filosofico di una grande forza.

L.M. | È un ‘immagine meravigliosa. Tra l’altro, a proposito di grandi maestri con cui tu ti sei confrontato, anche partendo dal Ticino, l’altro grande che io ho amato nella tua rilettura di San Carlo alle Quattro Fontane è Borromini, io ricorderò tutta la vita quel modello in scala 1 a 1 della sezione del San Carlino, che per me è una delle cose più emozionanti che tu abbia fatto, scusami se te lo dico.

M.B. | Sì, è vero, è vero.

L.M. | Una cosa incredibile quella sezione che hai fatto galleggiare sul lago ricordando il teatro del mondo di Aldo Rossi.

M.B. | Era un finto galleggiamento perché era appoggiato.

L.M. | Certo, no, evidente.

M.B. | Quello di Aldo Rossi era ancora più lirico, galleggiava davvero. Una delle ragioni del San Carlino è stata ispirata da un’osservazione di Carlo Dossi nelle sue Note Azzurre: “il carattere dominante dell’architettura è dato dal contesto che colpisce l’occhio dell’artista. Con questa frase il Dossi ammonisce gli architetti che non siamo noi a fare il carattere dominante, ma il contesto. Allora, mi sono detto che Borromini è partito da Bissone, dove era nato nel 1599, per frequentare la scuola dello scalpellino Andrea Biffi a Milano, che gli diede la possibilità di lavorare in importanti cantieri, fra cui il duomo di Milano. Poi si sposta a Roma, dove viene pagato dieci volte più degli altri architetti, dimostrando di essere un talento impressionante. Una delle prime opere giovanili è proprio il San Carlo alle Quattro Fontane.

Il San Carlino, in Ticino, nasce come omaggio per i quattrocento anni dalla nascita del Borromini ed è stato un modo per verificare se esisteva una relazione fra il ricordo del paesaggio vissuto dal giovane architetto e la realtà di un’opera di architettura che si riferiva a un contesto specifico, perché Borromini è nato e cresciuto sulle rive del lago, dove le montagne s’innalzano ripide, talvolta a strapiombo sul piano dell’acqua. Questa osservazione di interpretare il paesaggio come un’architettura che si confronta con la geometria del piano orizzontale dell’acqua, ha offerto lo spunto per il San Carlino. Ricordo un’affermazione di Rafael Moneo che durante una sua visita in Ticino e, dopo aver visto i nostri laghi, ha detto di capire perché le nostre terre hanno prodotto una generazione di grandi costruttori che hanno lavorato in tutto il mondo (oltre a Borromini, pensiamo a Fontana, Maderno, Solari, Trezzini).

L.M. | Ma è così anche per i tuoi lavori?

M.B. | Vorrei che fosse così. La costruzione dello spazio di vita dell’uomo – l’architettura – è un elemento d’artificio rispetto alla natura, è un modo per indicare le trasformazioni attuate dall’uomo e, proprio in quanto atto di creazione, trasforma una condizione di natura in una condizione di cultura. Sono questi valori che costruiscono la nostra identità e che entrano a far parte del nostro DNA. Sono emozioni e immagini del nostro vissuto, sono il ricordo, magari fuggente, di valori metaforici a volte più forti delle esperienze tecniche e funzionali. Anche per questo le trasformazioni attuate dall’architettura diventano parti fondamentali del paesaggio umano.

L.M. | Certo, è una sintesi, è come una sintesi tra le due parti, come la sintesi che diventa forma, che poi noi abitiamo.

M.B. | Borromini è andato via dal suo paese e io lo posso considerare un mio vicino di casa. Ogni giorno penso che lui ha vissuto in quel luogo e che ha visto lo stesso paesaggio che vedo io. Si deve essere un po’ ottusi a non capire che il paesaggio può offrire uno stimolo forte per l’architettura.

L.M. | Prima hai fatto un po’ di ironia da persona umile, quale sei, dicendo che avevi avuto la fortuna di essere ignorante, però una cosa che tu nella tua vita hai spesso affermato, e mi ha sempre molto colpito, è che hai sempre cercato non solo maestri di architettura, ma anche maestri d’altre discipline, come nell’ arte e nella letteratura. Hai avuto molti di questi maestri, e di alcuni la fortuna di farne anche i musei come Dürrenmatt, ad esempio. Però tu hai sempre cercato in maniera molto consapevole delle buone compagnie e questo per te è parte del pensiero del progetto, è parte del tuo percorso.

M.B. | Sì, sì, sì. Hai citato Dürrenmatt, che ho avuto il privilegio di incontrare e di stabilire un rapporto di amicizia con la moglie, Charlotte Kerr. Dürrenmatt è stato una personalità affascinante che, attraverso la creazione letteraria, ha scandagliato in maniera impietosa la precarietà dell’uomo di cui, in forma paradossale e grottesca, ha denunciato l’isolamento e la solitudine. Secondo me rappresenta il segno della cultura all’interno delle contraddizioni della Svizzera.

L.M. | Ah lui sì, lui è pazzesco.

M.B. | È stato un mostro di bravura.

L.M. | I suoi libri sono bellissimi.

M.B. | In questo momento, sto rileggendo il romanzo il Minotauro, il rifacimento del mito classico; ma qui il Minotauro è un essere sensibile costretto a vivere in un labirinto fatto di infiniti specchi che rappresentano altrettante illusioni di sé.

Penso anche a Max Frisch, che, al contrario del rigoroso e agnostico Dürrenmatt, era un romantico, un romanziere e scrittore di teatro, che ho ammirato per i suoi scritti e anche per le sue architetture. Di lui mi ha sempre incuriosito il fatto che mettesse il suo lavoro di architetto in secondo piano, fino ad arrivare al punto di abbandonarlo, quasi che l’ottica letteraria superasse la sua capacità critica architettonica.

Aveva l’abitudine di condurre i suoi amici letterati nei cantieri. Un giorno vi portò Bertolt Brecht, una visita che ha descritto in Diario d’antepace. Brecht non era il letterato che cerca di interpretare la realtà attraverso filtri ideologici, era l’uomo del contrasto, del confronto, del dialogo critico. Era preciso anche nei rilievi tecnici, chiede a Frisch il perché di una scala, di una finestra. La scala, gli risponde Frisch, serve a creare un rapporto fra la condizione di piano artificiale e la natura, la finestra a gettare uno sguardo sul lago. Di fatto aveva ragione Brecht: l’architetto Frisch aveva sbagliato sia la scala, sia la finestra. Quindi, a un certo punto Frisch disse a Bertolt Brecht di non andare più a trovarlo e mi ha fatto osservare che chi va a vedere il lavoro di un altro spesso vi scova degli errori.

L.M. | Sì, perché cambia il punto di vista, perché ogni autore guarda in maniera fissa quello che fa, perché c ‘è immerso dentro mentre un altro con uno sguardo leggero vede le cose che tu non vedi più.

M.B. | Ma è interessante che Brecht abbia beccato gli errori di Max Frisch.

L.M. | E tu hai avuto qualche Brecht nella tua vita che ti ha beccato?

M.B. | Moltissimi Brecht, perché il mio lavoro è sotto gli occhi di tutti e perché ho avuto il privilegio di frequentare dei grandi spiriti critici, ognuno nel suo ambito. Tornando a Dürrenmatt, mi ha sempre impressionato il suo sguardo naif tanto da affermare “dipingo come un bambino, ma non sono un bambino; dipingo per la stessa ragione per cui scrivo, poiché penso”.

L.M. | C’è, ma è interessante questa idea, perché è la naïveté come forma anche di protezione dal mondo, no? E anche l’idea di riguardare ogni volta le cose in maniera diversa come se non fossero mai esistite prima. Questa è una cosa meravigliosa.

M.B. | Questa è una prerogativa dei grandi, no?

L.M. | Non lo so, però dovremmo tutti cercare di guardare il mondo in questo modo, non trovi?

M.B. | Sì. Sarebbe bellissimo vederlo sempre con occhi diversi e stupirsi ogni volta, lasciando perdere tutto quello che non è essenziale.

L.M. | Capisco che poi c’è il tema della realtà, però trovare nella realtà cose di cui innamorarsi ogni tanto credo che sia ancora importante oggi.

M.B. | Sì, importantissimo. Io, per esempio, credo di essere debitore di Dürrenmatt ancora per parecchio tempo, perché ogni volta che lo rileggo, trovo degli aspetti che, magari, mi erano sfuggiti.

L.M. | Sì, è come rileggere ogni volta un’architettura e porre domande diverse. Io sono convinto che ogni volta che vedi un’opera di Le Corbusier gli fai domande nuove perché tu lo guardi con un’opera diversa. Mario, ti faccio un’ultima domanda, perché poi non ti voglio rubare tanto tempo, ma quali sono le ultime cose a cui state lavorando in studio adesso? Perché noi abbiamo parlato di varie storie, però il tuo studio continua a lavorare, adesso siete associati, quindi è uno studio che sta lavorando anche con la nuova generazione.

M.B. | No, non siamo associati, ma i miei tre figli mi affiancano nel lavoro.

L.M. | Ma a cosa state lavorando in questo periodo che ti sta appassionando?

M.B. | Guarda, è un periodo molto difficile. Sto lavorando sui vecchi progetti. In Corea è in fase di realizzazione una grande chiesa – che sarà inaugurata quest’anno – e che mi ha molto coinvolto perché non è solo una chiesa ma un pezzo di paesaggio; è come se fosse una diga in fondo a una valle, sotto la diga si sviluppa la città. È come se avessi legato le due sponde della valle. Poi, sto seguendo un altro grande progetto in Cina, dove sto costruendo un campus universitario a Shenyang, una città a nord di Pechino. Si tratta di un campus per l’Accademia di Belle Arti fondata da Mao Zedong nel 1938. Inizialmente, mi chiesero un masterplan ma, in seguito, mi hanno detto che dovevo costruire tutto.

L.M. | Io ho visto a Pechino qualche anno fa il tuo progetto della Tsinghua University.

M.B. | La settimana prossima verranno a trovarmi in studio il nuovo presidente della Tsinghua University per la quale, oltre al museo che hai visto, ho anche costruito una biblioteca. Sai, lavorare in Cina è difficilissimo. Durante il cantiere del museo per la Tsinghua University lavoravano per me tre gruppi di cento architetti; mentre io – qui – avevo tre collaboratori! Di colpo mi sono trovato a dover dirigere trecento architetti che mi mandavano miriadi di disegni da correggere.

Ma anche lì sono diventati furbi. A Shenyang hanno escogitato un trucco per quando chiedo loro di ricevere delle fotografie: mi mandano degli scatti aerei per far vedere meglio il campus, però ogni volta vanno sempre più in alto a fotografare, per cui i dettagli diventano invisibili; è come vedere veramente un master plan. Si sono fermati anche loro, è cambiato il mondo anche là.

L.M. | Si è vero la città sta cambiando molto.

M.B. | No. Mi riferivo alla pandemia. Il Covid ha cambiato il mondo e, per due anni, la Cina si è fermata, fino a chiudere tutto. Solo poco tempo fa sono ripartiti.

L.M. | Mario senti io ti ringrazio moltissimo, è sempre un piacere dialogare con te.

M.B. | Ti aspetto ancora. Grazie a te e guarda che sei diventato mio complice, forse non lo sai…

L.M. | Siamo partner in crime come dicono gli americani.


Testo di Luca Molinari


Didascalie e crediti fotografici (dall’alto in basso)

– Ritratto di Mario Botta – foto di Flavia Leuenberger Coppi
– Mario Botta nel suo studio di Mendrisio, Svizzera – Ph. Claude Dussex
– Mario Botta con Louis Kahn. Venezia, 1969 – Archivio Ph. Botta
– Mario Botta durante la discussione della sua tesi di laurea. Venezia, luglio 1969 – Archivio Ph. Botta
– Mario Botta con Jullian de la Fuente. Venezia, 1966 – Ph. Querini Fondazione Stampalia, Fondazione Mazzariol, Martina Mazzariol
– San Carlino, lungolago di Lugano, Svizzera (1999-2003 smantellato). Schizzi preliminari
– Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Svizzera (1986-1996). Schizzo della sezione trasversale
– Casa unifamiliare a Cadenazzo, Svizzera (1970-1971). Schizzo dell’apertura
– MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Rovereto, Italia (1998-2002). Schizzo della piazza coperta
– Casa unifamiliare a Origlio, Svizzera (1981-1982)
– San Carlino, lungolago di Lugano, Svizzera (1999-2003 smantellato) – Ph. Enrico Cano
– Il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel, Svizzera (1992-2000) – Ph. Pino Musi
– Casa unifamiliare a Cadenazzo, Svizzera (1970-1971) – Ph. Alo Zanetta
– Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Svizzera (1986-1996) – Ph. Pino Musi
– MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto, Italia (1988-2002) – Ph. Enrico Can
– Casa unifamiliare a Origlio, Svizzera (1981-1982) – Ph. Lorenzo Bianda
– Biblioteca di scienze umane e sociali, Campus dell’Università Tsinghua, Pechino, Cina (2008-2011) – Ph. Fu Xing
– Museo d’arte Tsinghua, Campus dell’Università Tsinghua a Pechino, Cina (2002-2016) – Ph. Enrico Cano
– Interno della Chiesa di San Rocco a Sambuceto, Italia (2006 in corso) – Ph. Enrico Cano
– Chiesa di San Rocco a Sambuceto, Italia (2006 in corso) – Ph. Enrico Cano – Mario Botta con Louis Kahn. Venezia, 1969 – Archivio Ph. Botta
– Mario Botta durante la discussione della tesi di laurea. Venezia, luglio 1969 – Archivio Ph. Botta
– Mario Botta con Jullian de la Fuente. Venezia, 1966 – Ph. Querini Fondazione Stampalia, Fondazione Mazzariol, Martina Mazzariol
– San Carlino, lungolago di Lugano, Svizzera (1999-2003 smantellato). Schizzi preliminari
– Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Svizzera (1986-1996). Schizzo della sezione trasversale
– Casa unifamiliare a Cadenazzo, Svizzera (1970-1971). Schizzo dell’apertura
– MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea, Rovereto, Italia (1998-2002). Schizzo della piazza coperta
– Casa unifamiliare a Origlio, Svizzera (1981-1982)
– San Carlino, lungolago di Lugano, Svizzera (1999-2003 smantellato) – Ph. Enrico Cano
– Il Centro Dürrenmatt di Neuchâtel, Svizzera (1992-2000) – Ph. Pino Musi
– Casa unifamiliare a Cadenazzo, Svizzera (1970-1971) – Ph. Alo Zanetta
– Chiesa di San Giovanni Battista a Mogno, Svizzera (1986-1996) – Ph. Pino Musi
– MART – Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto, Italia (1988-2002) – Ph. Enrico Can
– Casa unifamiliare a Origlio, Svizzera (1981-1982) – Ph. Lorenzo Bianda
– Biblioteca di scienze umane e sociali, Campus dell’Università Tsinghua, Pechino, Cina (2008-2011) – Ph. Fu Xing
– Museo d’arte Tsinghua, Campus dell’Università Tsinghua a Pechino, Cina (2002-2016) – Ph. Enrico Cano
– Interno della Chiesa di San Rocco a Sambuceto, Italia (2006 in corso) – Ph. Enrico Cano
– Chiesa di San Rocco a Sambuceto, Italia (2006 in corso) – Ph. Enrico Cano

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